I circuiti da svapo e la modalità PWM

C’è qualcosa intorno a noi, qualcosa di molto presente nelle nostre vite… E ne l nostro svapo.

Modulazione di larghezza d'impulso: è una parola stranissima, che cosa vorrà mai dire?

Già a chiamarla col suo nome inglese, pulse width modulation (o con la sua sigla, PWM) ci è più vicina.
E a che serve?

IL PWM

Abbiamo in casa delle illuminazioni a led a cui è possibile regolare la luminosità o il colore dell’illuminazione?
Le nostre splendide auto, con gli specchietti regolabili elettricamente?
E tante altre applicazioni industriali.

Un oscilloscopio, simile a quello che usai con un
mio amico per "provare" i circuiti da svapo
Non esiste la corrente elettrica, esiste una differenza di potenziale pari a 220 volt tramite corrente alternata con una frequenza di 50 hertz che è quella che alimenta i nostri elettrodomestici.

Su un cavo elettrico passano varie frequenze, sul cavo telefonico di casa nostra due, che tramite un filtro da collegare alla presa telefonica di casa “scompone” un segnale audio (fonia) che è quello che utilizziamo per telefonare e un segnale dati (ADSL nei suoi vari protocolli) che è quello che ci connette ad internet.

Motivo per cui la nostra lampada a led cangianti è un dispositivo a cui il voltaggio di alimentazione (220 volt ridotti tipicamente a 5 volt tramite un alimentatore) che genera una luce bianca e se si “aggiunge” (meglio dire, modula una pulsazione in frequenza) che controlla il LED cambia il colore o la luminosità come desiderato e con lo stesso avviene con i motori elettrici a velocità variabile e regolabile, che siano servomotori, micromotori o altro.

E nello svapo?

La nostra batteria da svapo non è un dispositivo scientifico, anzi: accetta voltaggi massimo in ricarica fino a 4.2 volt oltre le quali gli accumulatori che la compongono si danneggiano, tipicamente erogano un voltaggio da 3.6 a 3.8 volt a “regime” calando via via con l’uso (e la scarica dell’energia accumulata), in maniera fluttuante, in base all’anzianità d’uso della batteria, dello stato di carica o del valore di resistenza che deve essere alimentata.

E come faccio a stabilizzare il voltaggio per ottenere i 4.0 volt fissi che mi danno tanto gusto a svaparci?

La prima maniera è amplificare il segnale generato dalla batteria in modo di elevarlo al livello voluto, un po’ come facciamo con la manopola del volume negli impianti audio, modalità che genera un segnale “forte” (tipico dei primissimi DNA20, 30 e 40) ma che richiede circuiti più complessi da realizzare e che tipicamente (per il funzionamento del circuito stesso) tende ad avere dei consumi elettrici di batteria maggiori, motivo per cui i mitici DNA30 erano “corposi” e pieni, ancora oggi splendidi per svaparci tabacchi scuri ma avevano consumi di batteria altissimi mentre i circuiti “cinesi” di fascia economica che una volta lavoravano in amplificazione di potenza, al 50% di carica di batteria iniziavano a “svarionare” stabilizzando il voltaggio in maniera imprecisa o a segnalare “Battery low”, stato di carica della batteria insufficiente anche se teoricamente dovrebbe essere ancora in grado di erogare indicando un circuito di scarsa qualità e progettazione sommaria.

E il PWM.

Le prime box della storia, le americane varivolt, le antenate della Hammer of God e delle HexOhm attuali, avevano la possibilità solo di regolare il voltaggio in erogazione, non il wattaggio che richiedeva (per ricavarlo) la lettura del valore di resistenza della coil installata.
Come funzionavano? Tramite un classico voltmetro veniva letto il voltaggio erogato dalla batteria e tramite un circuito (i primi utilizzati erano componenti dei controller degli ascensori) si generava un segnale elettrico che sommato a quello “grezzo” della batteria generava il voltaggio perfetto che avevamo impostato come desiderato in alimentazione.

Il vantaggio di questi circuiti erano la loro semplicità (erano facili da costruire e non richiedevano la progettazione di componentistica particolare essendo realizzati con componenti di uso abbastanza diffuso anche in altre applicazioni dell’elettronica) e il basso consumo energetico, il difetto era una certa “fiacchezza” in erogazione che richiedeva l’impostazione di una potenza lievemente più alta per avere lo stesso hit.
La dimostrazione lo diede una box ormai dimenticata anche se fece storia, la IPV Mini di Pioneer4you da 30 watt, non la seconda versione a potenza maggiorata a 60 watt: tramite una combinazione di tasti permetteva di commutare l’erogazione in modalità DC ovvero tramite amplificazione di potenza (ma non troppo, ne parlerò dopo) o PWM.
Se si usavano coil a resistenza alta (sopra ohm) la box funzionava benissimo in modalità PWM con una durata di batteria (quindi con consumi elettrici inferiori) fino a un 40% superiore a quella in modalità DC mentre se si installavano coil a resistenza bassa (tipiche per il tiro di polmone) la modalità PWM risultava blanda e richiedeva l’impostazione di wattaggi più alti per avere rese medie (inferiori a quelle di una modalità DC).

I circuiti da svapo “suonano” tutti uguali?

Una volta, con un mio amico (che purtroppo ha cambiato città e non posso più importunare facilmente), abbiamo attaccato le nostre box ad un oscilloscopio, usando un deck di un Velocity V2 a cui avevamo collegato i fili per le letture.
Attivando circuiti Dicodes, Evolv e Starplat, si generava un diagramma squadrato dove alla pressione del pulsante fire si generava una forma d’onda che si alzava, si stabilizzava e al rilascio del pulsante si azzerava.
La linea che si generava a voltaggio stabilizzato sembrava disegnata con un righello e una matita, perfettamente diritta e precisa, indice di un segnale stabilizzato tramite amplificazione di potenza.

Su circuiti cinesi Joyetech (che sono gli stessi di Eleaf e Wismec) la linea generata dalla stabilizzazione del voltaggio è più ondulata, cosa che indica un circuito che stabilizza il voltaggio con minor efficienza e precisione ma anche tramite “dopaggio” di segnale tramite PWM, e anche allo svapo (soprattutto con coil a resistenza più bassa) è percepibile un segnale meno grintoso, più fiacco.

Yihi... Yihi sono personaggi strani da sempre, sin da quando con il loro primo chip dotato di controllo temperatura (l’SX350J) della M-Class escogitarono il primo dispositivo da svapo “dual core” dotato di una unità a 8 bit che gestiva la stabilizzazione del voltaggio e uno a 16 bit che gestiva le modalità di erogazione del TC mentre dalla successiva ML-Class entrambe i core erano a 16 bit.
Yihi è dotata di modalità di erogazione regolabili, ECO, Soft, Standard, Powerful e Powerful+.

E di una furbizia progettuale intelligente: creare un circuito che opera un po’ in amplificazione di potenza un po’ tramite PWM.
Andando a NON considerare i boost in erogazione tipiche delle modalità Powerful normale e +, il chip Yihi stabilizza tramite amplificazione di potenza fino ad un certo livello approssimativo, andando poi a stabilizzare (“rifinire”) il voltaggio tramite PWM per ottenere il voltaggio esatto desiderato, e in questo Yihi lavora benissimo.
Nella modalità ECO la stabilizzazione del voltaggio è quasi totalmente effettuata tramite PWM, motivo per cui a svaparci con resistenze alte la “perdita di grinta” è impercettibile mentre è molto più lunga la durata della batteria.

Via via salendo di modalità, in Standard la stabilizzazione è “quasi precisa” in potenza e solo corretta (“limata”) in PWM per coincidere al voltaggio desiderando e via via, più ci si “alza” più cala la quota di stabilizzazione tramite PWM e più aumenta la stabilizzazione tramite amplificazione di voltaggio.

Così, con qualche perfetto compromesso, bilancia consumi di batteria bassi e stabilizzazione precisa del voltaggio erogato.

Ovviamente, con tutte le eccezioni ammesse dalla più o meno curata progettazione del circuito, visto che un DNA60 con firmware aggiornato o uno Starplat 75w coniugano erogazione corposa e potente con consumi bassi tanto quanto i circuiti di box cinesi molto economiche (che per semplicità di progettazione lavorano solo in PWM) spesso hanno consumi di batteria elevati e poco “comprensibili” per la scarsa qualità di erogazione che garantiscono.

Le “box” non suonano tutte uguali perché hanno circuiti diversi.

“Suonano?”

Suonano, sì.
Gli amplificatori di potenza degli impianti audio hi-fi funzionano in maniera identica, solo che a loro vengono collegati altoparlanti anziché una coil in materiale resistivo.

E infatti, gli amplificatori di classe A (i più amati dagli audiofili) e B (i più diffusi negli impianti hifi domestici di buona qualità) lavorano in amplificazione pura di segnale, riuscendo a generare un output di qualità elevata ma con potenze (espresse in wattaggio) non esorbitanti mentre per poter ottenere potenze audio più elevate (per sonorizzare auditorium, sale concerti, cinematografi o spettacoli dal vivo) si utilizzano amplificatori in classe D, qualitativamente meno “perfetti” ma in grado di generare potenze elevate in grado di gestire altoparlanti più potenti e sonorizzare luoghi più ampi.

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